domenica 23 agosto 2020

Ecco come riconoscere la pericolosa vespa velutina e dove si trova in Italia


 

Introdotta accidentalmente in Francia nel 2004, la vespa velutina o calabrone asiatico ha colonizzato in poco tempo altri Paesi, compresi Spagna, Portogallo e Italia. La puntura dell’imenottero, noto per la sua aggressività, può scatenare uno shock anafilattico nelle persone predisposte e causare anche la morte. Rappresenta una seria minaccia anche per l’ambiente e l’economia.
di Andrea Centini
scienze.fanpage.it

Tra le cosiddette specie aliene, cioè introdotte dall’uomo da un altro ecosistema, il calabrone asiatico o vespa velutina (Vespa velutina) è una di quelle che desta maggiori preoccupazioni nel nostro Paese. Questi imenotteri asiatici, infatti, sono piuttosto aggressivi nei confronti dell’uomo, e le loro punture nei soggetti sensibili possono scatenare una grave reazione allergica nota come shock anafilattico. È accaduto a uno sfortunato giardiniere quarantaquattrenne di Imperia, che è stato punto da tre vespe velutine mentre era al lavoro. La minaccia principale resta tuttavia per le api, le loro prede preferite. Se infatti nei luoghi d’origine (India, Cina, Indocina e Indonesia) le prede hanno evoluto comportamenti atti a proteggersi dagli attacchi, le api europee sono completamente esposte ai voraci predatori.

Vespa velutina o calabrone asiatico.


La colorazione, seppur somigliante, presenta differenze evidenti: l’apice delle zampe del calabrone asiatico, come suggerisce il nome della sottospecie, è giallo, mentre quello del calabrone europeo è tendente al rossiccio. Le antenne sono nere (tranne una piccola parte) mentre quelle del nostro calabrone sono anch’esse rossicce. Risultano neri – se visti dall’alto – anche testa e torace, rispetto al bruno-rossiccio del calabrone europeo. L’addome è scuro nella parte prossima al torace e giallo in quello terminale, un configurazione simile a quella della specie nostrana, che tuttavia ha una porzione gialla molto più ampia accompagnata da dettagli neri.



calabrone europeo


Come è arrivata in Italia e dove si trova

In Europa le vespe velutine si sono diffuse dalla Francia a partire dal 2004, quando per errore fu introdotta nei pressi di Bordeaux, probabilmente all’interno di un vaso, una regina feconda che diede il via alla colonizzazione. Dalla Francia la vespa velutina ha raggiunto la Spagna, il Portogallo, il Belgio e anche il nostro Paese (i primi nidi sono stati individuati nel 2013). La regione più colpita per ragioni geografiche è stata la Liguria, dove l’insetto si è ampiamente diffuso. Numerose segnalazioni sono state fatte anche in Piemonte, nella provincia di Cuneo, mentre avvistamenti isolati sono stati registrati anche nel nord della Toscana e in Emilia Romagna e basso Veneto. Il rischio che possa diffondersi anche altrove è concreto, ed è per questo che sono in atto diverse iniziative per eradicare la pericolosa specie aliena. Il progetto “LIFE STOPVESPA”, cui collaborano università, apicoltori, enti di ricerca e semplici cittadini, punta a sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi legati alla vespa velutina, per le persone, la biodiversità e l’economia.

Vespa velutina: un pericolo per l’uomo

Soltanto le femmine di vespa velutina sono dotate di pungiglione, col quale possono iniettare una discreta quantità di veleno nelle vittime. Il pericolo principale è rappresentato dalle punture ripetute, tuttavia nei soggetti sensibili è sufficiente la puntura di una singola vespa per scatenare uno shock anafilattico. Si tratta di un’emergenza medica con conseguenze potenzialmente fatali per il paziente; in parole semplici, è una risposta dirompente e violenta del sistema immunitario al veleno dell’imenottero, una reazione sistemica che può portare all’asfissia e al collasso cardiocircolatorio. Il rischio è acuito dal fatto che la vespa velutina costruisce i nidi nei pressi dei centri abitati, e ciascuno di essi può contenere anche migliaia di esemplari.
Una minaccia per le api e l’economia

Le api, com’è noto, sono in diminuzione in tutto il mondo a causa della sindrome da spopolamento degli alveari, catalizzato dai pesticidi neonicotinoidi. Poiché questa specie impollina moltissime specie di piante, sia commerciali che non, una diminuzione significativa degli esemplari comporta rischi concreti per l’economia e gli ecosistemi. La vespa velutina preda preferenzialmente proprio l’ape domestica (Apis mellifera), e quando ne intercetta gli apiari li sottopone a una pressione predatoria elevatissima. Basti pensare che un singolo esemplare può arrivare a catturare e smembrare un’ape ogni 10 secondi. Le api sono così spaventate dalla loro presenza che spesso smettono di uscire dall’alveare, compromettendo l’impollinazione e lo stesso futuro della colonia. Le vespe velutine più aggressive possono entrare all’interno degli alveari per catturare le prede. In Francia sono stati registrati danni ingenti agli apicoltori, che hanno avuto a che fare con una minaccia imprevista e soverchiante.

Cosa fare quando avvistiamo una vespa velutina

Quando si avvistano nidi o esemplari di vespa velutina si può inviare una segnalazione sul sito del progetto LIFE STOPVESPA, i cui esperti stanno monitorando la distribuzione del calabrone sul territorio nazionale. È possibile catturare questi insetti posizionando trappole composte da bottiglie di plastica contenenti birra chiara con alcol al 4,7 percento. Questa bevanda è infatti attrattiva per i calabroni ma non per le api. Il rischio di simili metodi, tuttavia, è quello di attirare anche altra fauna (vespe e ditteri), col rischio di fare seri danni all’ecosistema. Per questo è sempre doveroso contattare un esperto.

Aggiornamento Maggio 2020

Nel nostro paese inizialmente ha distrutto molte arnie lungo la riviera ligure di ponente per poi espandersi fino in Toscana, con le ultime segnalazioni risalenti all’inizio del mese di aprile 2020 tra Liguria e Toscana, come segnalato da “Stop vespa velutina“. Già nel 2019, la regione Liguria aveva segnalato la crisi delle api a causa della sua presenza, unita alla crisi climatica. E purtroppo la minaccia continua.

Si teme sia per il settore dell’apicoltura che per l’impatto potenzialmente devastante della sua diffusione sull’ecosistema e sulla biodiversità. Motivo per cui gli esperti ritengono che sia necessario fermarla da subito, considerato che proprio la primavera è il periodo più adatto per bloccarne l’avanzata, utilizzando trappole cattura regina, senza le quali non si formano nuove colonie.

Proprio grazie a questo metodo, gli apicoltori sono riusciti a catturarne finora cinque, un numero preoccupante secondo l’etologa del Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze Rita Cervo, che è anche professore associato di Zoologia. E questo perché la vespa velutina è un predatore molto pericoloso per le nostre api che, non conoscendola, non sanno ancora difendersi dai suoi attacchi.

La Cervo, secondo quanto riporta La Stampa, ha dichiarato che l’apiario è una specie di “supermercato delle velutine che hanno bisogno delle proteine contenute nei muscoli delle api per nutrire le larve e allevare nuove regine.”

Ma al momento in Italia non esistono altri metodi, se non quello della cattura delle regine, per bloccarne l’avanzata dato che, rispetto ad altri paesi come la Cina e la Corea, non ci sono ancora specie di calabroni in grado di fronteggiare e limitare questa vespa.

Ecco perché le regioni Liguria e Toscana, dove sono state avvistate quest’anno, invitano tutti gli abitanti e gli apicoltori a segnalarne immediatamente la presenza sia tramite il sito di “Stop Vespa Velutina” che alle Associazioni apistiche locali.

FONTI: Stop Vespa Velutina/La Stampa


sabato 22 agosto 2020

Moria delle api: dal colore del polline un aiuto per scoprire la contaminazione chimica e la dispersione dei pesticidi Grazie alla separazione dei pollini in base al colore, l’analisi chimica e palinologica per determinare l’estensione dell’inquinamento da antiparassitari sarà molto più accurata

 Utilizzo di pesticidi e moria delle api. La correlazione tra i due fenomeni è ormai stata ampiamente dimostrata. Per questa ragione, ad esempio, l’impiego di antiparassitari tossici per le api, durante il periodo della fioritura è proibito e, a fini preventivi, l’Unione Europea ha deciso di restringere fortemente l’utilizzo dei neonicotinoidi, particolarmente letali per le api mellifere.

Uno studio sui residui di insetticidi e fungicidi nel polline – condotto da Sergio Angeli e Riccardo Favaro, entomologi, docenti e ricercatori alla Facoltà di Scienze e Tecnologie su otto apiari (o postazioni) tra le province di Bolzano e Trento – ha permesso di stabilire che il loro utilizzo nei meleti contamina anche le piante che sorgono al di fuori della zona coltivata. L’originalità e l’importanza della ricerca – Botanical Origin of Pesticide Residues in Pollen Loads Collected by Honeybees During and After Apple Bloom (Origine botanica dei residui di pesticidi nella bottinatura durante la fioritura dei meli, ndt.), pubblicata sulla rivista scientifica Frontiers in Phisiology – consiste nel fatto che per la prima volta restituisce una fotografia fedele della dispersione dei pesticidi nello spazio in cui si muovono le api.

L’innovatività del processo di analisi

La metodologia utilizzata per la ricerca è basata sul colore del polline: è questa caratteristica che permette di determinare con certezza fino a dove si spinge la contaminazione da antiparassitari. “L’ape normalmente raccoglie polline da circa 150 fiori ma è fedele alle piante che visita durante il medesimo volo, ovvero va sempre a bottinare piante della medesima specie. Noi, suddividendo il polline raccolto dalle singole api di in base al colore, capiamo su quale tipo di pianta si è posata l’ape per recuperare il nutrimento. Successivamente andiamo a verificare se quel determinato polline è contaminato da prodotti chimici e da quali”, spiega Sergio Angeli che è al quarto posto al mondo per citazioni su Google Scholar nel settore della ricerca sulle api mellifere.

La ricerca è stata possibile grazie alla collaborazione degli apicoltori altoatesini e trentini che hanno messo a disposizione gli apiari. All’interno di questi sono state istallate trappole polliniche, griglie di plastica con fori di un diametro molto ristretto. Quando l’ape li attraversa, strusciandosi contro le pareti del foro perde le pallottole di polline raccolto durante la bottinatura. Quello che rimane nella trappola durante una giornata di bottinatura, può essere raccolto dai ricercatori ed utilizzato per effettuare l’analisi chimica e palinologica (determinazione dell’origine botanica del polline).

In precedenza, l’analisi del polline era svolta in maniera indifferenziata. Tutto il polline raccolto veniva prima macinato insieme e poi esaminato. Per individuarne l’origine botanica, i due entomologi hanno invece suddiviso i campioni di polline in tre sottogruppi, a seconda della gradazione di colore: uno di colore verde chiaro, del melo; un secondo arancio, del tarassaco (tipica pianta dei meleti); il terzo rappresenta il residuo, ovvero quello che rimane tolti i primi due colori e che non può essere caratterizzato.

L’analisi dei campioni illumina l’effetto deriva

Valori di tossicità particolarmente elevati nel polline di tarassaco sono stati trovati durante la fioritura del melo nei campioni raccolti a Tirolo e Laives, mentre nel post fioritura in quelli di Malè, Croviana e Tirolo. Sorprendentemente, i pollini provenienti da piante erbacee ed arboree selvatiche o urbane al di fuori dei meleti hanno valori di tossicità pari ed indistinguibili dai pollini di melo e tarassaco raccolti nei meleti, suggerendo una deriva dei fitofarmaci nei territori circostanti.

Per calcolare il potenziale effetto tossicologico sulle api adulte dei residui di prodotti chimici contenuti nel polline i ricercatori hanno calcolato un quoziente di rischio per il polline, il Pollen Hazard Quotient. Questo numero combina la concentrazione con la letalità dei residui di pesticidi come il Phosmet, molto nocivo per le api, o altri come il Flonicamid o l’Imidacloprid. In alcuni campioni questa presenza è preoccupante, fino a 1,6 volte la DL50 ovvero la dose che somministrata una sola volta è in grado di provocare la morte del 50% del gruppo di apidi riferimento entro 24 ore.

Biomonitoraggio della qualità ambientale attraverso l’analisi del polline

Permettere la minimizzazione degli effetti negativi degli antiparassitari sull’ecosistema rappresenta una delle maggiori sfide con cui deve confrontarsi un’agricoltura avanzata improntata al principio della sostenibilità ambientale. Per arrivarci, si potrebbe, in futuro intensificare questo genere di campionamenti e verificare se nelle zone sottoposte a coltivazione biologica questi dati si riducano.

Questo lavoro di ricerca fondamentalmente apre la possibilità di sfruttare l’analisi del polline per effettuare il biomonitoraggio della qualità ambientale”, conclude Angeli, “Il procedimento adottato ci aiuta infatti a capire quale parte del paesaggio che ci circonda è più soggetta all’azione dei pesticidi e a inquadrare meglio l’effetto deriva – ovvero la loro dispersione oltre l’obiettivo – comune in agricoltura e viticoltura e a salvaguardare la salute delle api, degli altri impollinatori, e di tutti gli insetti, base stessa dell’ecosistema”.

mercoledì 22 aprile 2020

Ruolo ecologico di Apis mellifera e relazione tra alveare e ambiente


Quando pensiamo alle api ci viene oggi spontaneo pensare all’apicoltura con arnie a favo mobile, alla produzione di miele oppure alle varie problematiche che oggi l’apicoltura attraversa e che vengono spesso definite come “declino delle api”. In realtà l’ape mellifera non è un animale domestico e l’apicoltura è solo un aspetto del meraviglioso mondo delle api.
Apis mellifera è un insetto autoctono in gran parte dell’Europa, dell’Africa e del Medio Oriente e come organismo “selvatico” riveste un ruolo di primaria importanza nella conservazione della biodiversità vegetale e quindi degli ecosistemi in genere. Questo ruolo deriva dal fatto che questo apoideo è all’apice di un processo evolutivo, anzi, di coevoluzione, che a partire da oltre 100 milioni di anni fa ha visto una convergenza tra alcune piante, le fanerogame, e un gruppo di insetti che si sono via via specializzati nell’utilizzare per la propria sussistenza quanto queste piante offrono loro restituendo in cambio un infallibile e capillare servizio di impollinazione. Questo processo di coevoluzione ha portato alla comparsa di un piccolo gruppo di specie, il genere Apis, che hanno raggiunto livelli evolutivi diversi. A differenza di gran parte degli altri apoidei, le specie del genere Apis sono tutte sociali e le loro colonie, di dimensioni varie, sono durevoli. Il “segreto” del loro successo risiede nella secrezione della cera, un materiale plastico e impermeabile che le api secernono per costruire i loro favi che quindi sono adatti a conservare il miele anche per anni. Ma l’apicoltura come la conosciamo oggi è nata solo in relazione all’Apis mellifera, perché le sue caratteristiche biologiche ed etologiche consentono facilmente il suo “sfruttamento” da parte dell’uomo a fini produttivi. Gli aspetti biologici dell’ape mellifera che hanno reso “facile” la nascita dell’apicoltura sono:
  1. Formazione di grosse colonie durevoli (oltre 50.000 individui in primavera-estate)
  2. Raccolta di enormi quantità di nettare e stoccaggio di moltissimo miele
  3. Nidificazione entro cavità (di volume paragonabile ad una cesta, un otre o altri recipienti)
  4. Timore del fumo
  5. Riproduzione delle colonie per sciamatura solo in determinati periodi dell’anno
  6. Stazionamento temporaneo degli sciami a pochi metri dalla colonia originaria

Queste caratteristiche derivano in parte anche da un perfetto adattamento all’ambiente. Infatti, l’Apis cerana, specie asiatica molto affine alla nostra ape mellifera, vivendo in aree a clima e vegetazione tropicale o subtropicale, ha una forte inclinazione alla sciamatura, non essendo costretta a limitarla (almeno a scopo riproduttivo e dispersivo) a quei limitati periodi della stagione in cui ci sia una grande disponibilità di risorse alimentari.
L’ape mellifera invece, e specialmente le popolazioni europee e del bacino del mediterraneo, dopo la sciamatura deve riuscire a costituire colonie sufficientemente popolose e ben fornite di scorte di miele per superare periodi avversi come gli inverni freddi o le estati aride.
L’ape mellifera quindi ha imboccato un percorso evolutivo che prevede la formazione di grosse colonie, ben sincronizzate con le caratteristiche climatiche e vegetazionali locali, che perciò sono costrette a raccogliere enormi quantità di nettare o melata, per costituire le ingenti scorte necessarie alla loro sopravvivenza durante i periodi avversi. Ma il problema fondamentale per queste grosse colonie deriva proprio dal ciclo biologico ed etologico dei singoli individui e specialmente delle api bottinatrici. Queste api necessitano 20-21 giorni di sviluppo da uovo ad insetto adulto e altri 20 giorni circa di attività all’interno dell’alveare per essere “sfruttate” a pieno per le loro secrezioni (gelatina reale e cera) e per compiere la loro preparazione alla vita esterna. Una colonia di ape mellifera deve intraprendere quindi l’allevamento di una massa ingente di covata almeno 40 giorni prima di un importante flusso alimentare. Ma non sempre le cose vanno come previsto e se al momento dell’ingente fioritura le condizioni atmosferiche fossero non compatibili con l’attività di foraggiamento, le colonie dovrebbero poter continuare ad allevare molta covata nell’attesa di altre risorse alimentari. Per questo motivo, le grosse colonie di ape mellifera devono ogni anno immagazzinare molto più miele di quanto non serva per una normale annata. Da questa necessità di raccogliere un enorme surplus di scorte trae origine l’apicoltura e probabilmente proprio per questa attitudine al “risparmio” l’alveare e le api sono state elette come simbolo dei primi istituti bancari.

Da questa lettura, forse semplicistica, della biologia dell’ape mellifera si può comprendere come il superorganismo alveare debba essere sincronizzato al massimo con l’ambiente in cui vive. Questa sincronizzazione, che porta alla formazione degli “ecotipi” locali, determina sia l’andamento stagionale che l’entità dello sviluppo demografico delle colonie. Per questo motivo, originariamente, le diverse sottospecie dell’Apis mellifera (e i diversi ecotipi locali, erano caratterizzate ad esempio da diversa propensione alla sciamatura, diversa popolosità delle colonie sia durante la buona stagione che nei periodi di stasi, diversa produttività, aggressività, densità di insediamento delle colonie e raggio di bottinatura. Queste sono le conclusioni che possiamo trarre:
  1. Le api si sono evolute assieme ai fiori da cui ricavano il cibo e che provvedono a impollinare
  2. Queste colonie sono durevoli grazie alla cera di cui sono fatti i favi
  3. Il percorso evolutivo ha portato le api mellifere a costituire enormi colonie
  4. La necessità per le api mellifere di immagazzinare grandi scorte di miele ha determinato la nascita dell’apicoltura
  5. Le api mellifere sono organismi selvatici e sono i più importanti impollinatori della nostra flora spontanea
  6. Il susseguirsi delle fioriture e delle altre disponibilità alimentari di un dato ambiente, sono alla base dell’andamento demografico delle colonie
  7. Il sostentamento di queste colonie prevede un elevato sincronismo con l’ambiente sia da un punto di vista climatico che floristico
  8. Questo sincronismo api-ambiente necessita di tempi lunghi e produce i cosiddetti ecotipi.
Da queste conclusioni potremmo sviluppare ragionamenti diversi a seconda che si voglia valutare, tutelare o potenziare il ruolo ecologico dell’ape mellifera oppure per indagare anche in tal senso le cause delle gravi difficoltà che oggi l’apicoltura incontra come attività produttiva. Tuttavia oggi le due grandi questioni legate all’ape mellifera non sono più scindibili. Con l’avvento della Varroa le colonie “selvatiche” di ape mellifera sono pressoché scomparse in gran parte del suo areale originario e le uniche api presenti sono quelle gestite dagli apicoltori. Per questo motivo una visione globale del “problema api” è quanto mai urgente, sia per gravissimi e urgenti ragioni ambientali ma anche per riconsiderare in modo più naturale l’antichissima e nobilissima arte dell’apicoltura. L’apicoltura interagisce totalmente con l’ambiente, da cui riceve tutto quanto produce e a cui non deve dimenticarsi di restituire quel servizio di impollinazione, soprattutto verso la flora spontanea, che è alla base della conservazione degli equilibri ecologici grazie ai quali anche la specie Homo sapiens può sopravvivere e prosperare.
Paolo Fontana: paolo_api.fontana@fmach.it