martedì 26 febbraio 2019







Il futuro delle api è africano

26 Febbraio 2019


Sarà l’Africa a salvare le api? Secondo alcuni studi, le api africane potrebbero offrire una soluzione non solo ai problemi di alimentazione del loro continente, ma anche l’apicoltura nordamericana ed europea. Ma andiamo con ordine.
A partire dagli anni Duemila, si è assistito a una crescente moria delle api in Europa e nel Nord America. Negli Usa, tra il 1947 e il 2005, si è perso il 59% delle colonie di api, mentre in Europa, dal 1985 al 2005, il 25%. Solo in Europa il 9,2% delle 1965 specie di insetti impollinatori sta per estinguersi, mentre un ulteriore 5,2% potrebbe essere minacciato nel prossimo futuro. Tenendo conto che l’80% delle piante esistenti dipende dall’impollinazione delle api, si capisce quanto la portata del fenomeno può essere devastante.
Le cause sono molteplici. Anzitutto gli agenti patogeni che indeboliscono gli insetti e li portano lentamente alla morte. Le api sono poi suscettibili alle sostanze chimiche presenti nell’ambiente. Tra esse i fitosanitari o pesticidi, utilizzati per proteggere i raccolti. Anche i fattori ambientali sono spesso menzionati come cause potenziali della moria. L’apporto di carboidrati (dal nettare), proteine (dal polline) e acqua è importantissimo per garantire tutte le funzioni vitali delle api. Una carenza di questi elementi può indebolire considerevolmente una famiglia.
In Africa vive una specie di ape mellifera più aggressiva, ma anche più resistente. La maggior parte della loro popolazione, stimata di 310 milioni di colonie, è selvaggia e vive in cavità naturali negli alberi o nel terreno. Recenti indagini sulla salute hanno indicato che le popolazioni di api africane sono effettivamente in buona salute.
L’Africa potrebbe quindi beneficio dagli errori commessi altrove, prevenendo i problemi attraverso la protezione delle popolazioni di api. Prima che gli Stati stabiliscano regole e restrizioni, gli apicoltori svolgono un ruolo vitale. Possono aiutare a mantenere in salute le api africane e, da esse, i ricercatori e gli apicoltori possono imparare come conservare l’ape occidentale.
Per questo motivo è utile puntare allo sviluppo dell’apicoltura in Africa. Un settore che, da un lato, può offrire un contributo alla salvaguardia di una specie, l’ape, così fondamentale per l’ecostistema e, dall’altro, può offire un buon nutrimento come il miele e può rappresentare una buona fonte di entrate (anche l’export ha grandi margini se consideriamo che il miele africano rappresenta solo lo 0,4% del miele commerciato nel mondo).
Anche Celim, Ong milanese attiva in Africa, Balcani e Medio Oriente, sta lavorando su questo fronte. In Zambezia, regione tra le più povere del Mozambico, ha dato vita a un progetto di sviluppo che scommette anche sull’apicoltura. I volontari stanno installando arnie per apicoltura e l’avvio di due centri di lavorazione del miele legato alla Cooperativa locale Cizenda Tae. Per questa attività saranno organizzati corsi di formazione a beneficio di 100 apicoltori. In questo modo, il miglioramento del sistema produttivo avrà principalmente benefici economici, ma non solo: migliorerà l’emancipazione sociale, valorizzando al contempo il ruolo e le capacità delle donne. E preserverà le api.

martedì 19 febbraio 2019


Il gene che trasforma le api operaie in cospiratrici

Una minima variazione di un gene all'interno di un cromosoma può, in alcune condizioni, spingere le più ligie lavoratrici dell'alveare a detronizzare la regina e invadere la colonia con le proprie uova: la metamorfosi visibile in una sola sottospecie di ape mellifera potrebbe avere precise ragioni evolutive.

 

Come molte loro simili, le api del Capo (Apis mellifera capensis), una sottospecie di ape mellifera sudafricana, vivono in colonie in cui l'unico individuo fertile è la regina, che ritorna dai suoi voli d'amore per deporre le uova da cui nasceranno nuove operaie, con i geni della regina e dei fuchi con cui si accoppia.

È un'organizzazione perfetta. Questo finché la regina è presente e le operaie rimangono impegnate nelle faccende "di casa".

Ma qualche volta, se la regina manca o le sue suddite si trovano vicino all'alveare di altre sottospecie, le innocue operaie si trasformano nelle più spietate parassite. Lontane dalla "morsa ormonale" della loro sovrana, iniziano a deporre uova da cui, senza bisogno di fecondazione, vedranno la luce nuovi individui femmine, perfetti cloni dell'originale. Le nuove nate invadono il nido "occupato" e poi si allontanano, alla ricerca di un altro alveare da "conquistare".

All'origine del voltafaccia. Questo meccanismo che porta al graduale collasso delle colonie, è stato scoperto in Sudafrica un centinaio di anni fa, e da allora gli entomologi si chiedono da cosa sia innescato. Ora uno studio pubblicato su Molecular Biology and Evolution, rivela che è sufficiente una singola mutazione genetica per trasformare una mite operaia nell'incubo di ogni dinastia.

I ricercatori della Martin-Luther-Universität Halle-Wittenberg, in Germania, hanno confrontato il DNA delle api del Capo parassite e delle docili operaie, e hanno trovato differenze in un singolo locus (in una singola posizione di un gene all'interno di un cromosoma).
Per azionare la "modalità parassita", però, è necessario anche che le api mostrino una certa versione di un altro gene; e anche che si verifichino condizioni particolari come l'assenza della regina, o la presenza, vicino al nido da attaccare, di un'ape che presenti questa mutazione.
Meccanismo protettivo. In ogni caso la mutazione, che per ragioni genetiche rimane esclusiva di questa sottospecie, potrebbe essere tornata comoda, dal punto di vista evolutivo, nella storia delle api del Capo. Questi insetti vivono in zone molto ventose, dove è facile che la regina venga soffiata via o si perda nei suoi voli nuziali. Questa singola mutazione genetica potrebbe aver fatto la differenza tra un alveare senza regina, condannato all'estinzione, e una colonia in grado di "arrangiarsi" anche dopo la perdita della femmina fertile.



Le api imparano per imitazione

 

È noto da diverso tempo che, oltre all’essere umano, le scimmie, i mammiferi acquatici e alcuni uccelli sono capaci di imparare a usare nuovi strumenti per raggiungere uno scopo. Questa abilità viene oggi estesa anche ad alcuni invertebrati. I ricercatori della Queen Mary University di Londra hanno pubblicato su Science uno studio in cui dimostrano che le api sono in grado di risolvere problemi complessi per ottenere una ricompensa, imitando e soprattutto migliorando il comportamento dei propri simili.
“Il nostro studio” dichiara Lars Chittka, co-autore della ricerca, “mette fine all’idea che l’avere un cervello piccolo limita la flessibilità comportamentale degli insetti, costringendoli solo a semplici capacità di apprendimento”.
Utilizzando delle finti insetti di plastica, i ricercatori inglesi hanno addestrato alcune api (vere stavolta) a spostare una pallina gialla al centro di una piattaforma. Solo a operazione compiuta le api avrebbero avuto accesso a una soluzione zuccherina.
Fin qui si è dunque trattato di confermare la capacità di questi insetti di apprendere un comportamento per imitazione. Le cose hanno cominciato a farsi interessanti quando il team di ricerca ha osservato il comportamento di api non addestrate in tre situazioni differenti.
Un primo gruppo di api non addestrate è stato inserito in un contesto sociale, cioè ha avuto modo di osservare altre api, precedentemente addestrate a spostare la pallina, e di apprendere la tecnica per raggiungere la ricompensa dai propri simili.
Un secondo gruppo, invece, ha avuto un maestro fantasma: i ricercatori hanno mostrato alle api dove spostare la pallina grazie all’utilizzo di un magnete. Il terzo gruppo di insetti, invece, è stato lasciato allo sbaraglio, con la pallina già posizionata al centro della piattaforma.
Questa serie di test ha dimostrato che per le api è sufficiente osservare la tecnica poche volte per farla propria e metterla in pratica: anche se le api del primo gruppo sono state le più efficienti e le più rapide a risolvere il problema, anche gli insetti del secondo gruppo sono riusciti a raggiungere la ricompensa. Le api del terzo gruppo che non avevano avuto nessuna dimostrazione sono state quelle in maggiore difficoltà, invece.
Per complicare un po’ la situazione, gli scienziati hanno anche effettuato dei test sui tre gruppi mettendo più palline all’interno della piattaforma, due più vicine all’obiettivo e una più lontana. Le api del primo gruppo, quelle che hanno potuto imparare dalle api già addestrate, hanno assistito sempre allo spostamento della pallina più lontana verso il centro della piattaforma. Questo perché le api insegnanti erano state allenate appositamente così dai ricercatori, che avevano incollato le palline più vicine in modo che non potessero essere spostate. Eppure le api del primo gruppo non si sono limitate a imitare il comportamento delle compagne ma, poiché prive del condizionamento dell’addestramento, si sono dirette alle palline più vicine all’obiettivo.
“Le api hanno risolto il compito in un modo differente rispetto a quanto era stato loro mostrato, suggerendo che le api osservatrici non abbiano semplicemente copiato il comportamento delle loro simili, ma lo abbiano migliorato” spiega Olli J. Loukola, principale autore dello studio “Questo dimostra un’impressionante flessibilità cognitiva, specialmente per un insetto”.


Che cervello matematico, quelle api

 

Le api sono portate per la matematica, così tanto che riescono a svolgere operazioni complesse come addizioni e sottrazioni. Basta che studino un po’. Un team di ricercatori che arrivano da Francia e Australia ha infatti dimostrato come questi piccoli insetti possano essere addestrati ad associare i colori ad operazioni di addizione e sottrazione, e a usare quanto appreso per svolgere piccoli compiti di matematica. La scoperta del cervello matematico delle api, pubblicata su di Science Advances, mostra che non sempre nel regno animale serve un grande cervello per avere il potere di ragionare con i numeri.

Il cervello matematico delle api

Gli scienziati da tempo si interrogano su quanto sia diffusa tra gli animali la capacità non solo di stimare quantità, quanto proprio di fare delle operazioni e contare. Alcuni studi sembrano suggerire per esempio che non si tratti di un’abilità così rara: ce l’hanno gli oranghi, gli scimpanzé, i piccioni, ma anche bambini piccolissimi e ragni. E le api, modello per eccellenza negli insetti per la visione e la cognizione? Possono discriminare persino lo zero, avere una nozione di cosa è più grande e più piccolo, svolgere compiti complessi, possibile, si son chiesti i ricercatori, che il loro cervello matematico fosse tutto qui?
Gli scienziati, guidati da Scarlett Howard della RMIT University di Melbourne (Australia), hanno messo in piedi una serie di esperimenti per capire se davvero le api possedessero un cervello matematico. La logica è stata quella prima di insegnare loro cosa fosse un’addizione e una sottrazione (premiando gli animali in caso di risposta corretta con soluzioni zuccherine e punendoli con soluzioni amare in caso contrario) e poi di testare le loro abilità in un compito in classe in piena regola. In pratica dopo una fase di addestramento le api erano chiamate a misurarsi in un compito simile ma mai svolto prima per capire quanto effettivamente avessero appreso.

Le api possono fare addizioni e sottrazioni

Le due fasi degli esperimenti – allenamento e test – hanno coinvolto l’utilizzo di uno strumento a forma di Y. I ricercatori hanno allenato le api ad associare il blu a operazioni di addizione e il giallo a quelle di sottrazione: in base al numero di forme (o gialle o blu) mostrate all’ingresso della Y le api potevano muoversi verso uno dei due bracci, cui erano associati risultati diversi (uno giusto e uno sbagliato). In altre parole: se all’ingresso della Y c’erano 4 forme blu, l’azione corretta sarebbe stata muoversi verso il braccio con 5 forme blu (il blu significava aggiungere 1); se all’ingresso le api avessero trovato 4 forme gialle si sarebbero dovute indirizzare verso il braccio con 3 forme gialle. Dopo questa fase di training (ripetuta un centinaio di volte) gli insetti venivano testati mostrando loro 3 forme (mai fatto prima durante l’allenamento), di aspetto diverso.  Nei 4 test effettuati i ricercatori hanno osservato che in una percentuale variabile dal 60 al 75% le api sceglievano la risposta corretta, anche quando non avevamo mai visto 3 forme. In sostanza avevamo cioè imparato le basi aritmetiche, e le sfruttavano in un contesto simile ma diverso.

Ma a che serve tutta questa matematica?

Pur trattandosi di pochi test, in poche api (14), lo studio suggerisce che un cervello matematico possa svilupparsi anche in strutture cerebrali in miniatura, e molto distanti, evolutivamente parlando, da quelli dei primati. Le abilità di memoria a breve e lungo termine necessarie a svolgere le operazioni aritmetiche in natura servirebbero alle api a capire come indirizzare il loro comportamento nella ricerca di cibo. E a ricordare magari su quale fiore è meglio posarsi.