Qualche anno fa, in occasione di un dibattito di Earthwatch, le api sbaragliarono nell’opinione
degli spettatori le altre specie animali e vegetali – i funghi, il
plankton, i pipistrelli e persino le scimmie – in lizza per ricevere un
ideale, quanto fittizio, sostegno di mille miliardi di sterline per la
loro conservazione. Secondo Saul Cunningham, ricercatore dell’Australian National University di Canberra, l’ape mellifera europea (apis mellifera),
con la sua capacità di diffusione e adattamento a tanti ambienti
diversi, è infatti tra le poche “super-specie” esistenti, in termini di
successo evolutivo e di impatto sulle attività umane. Le api sono forse
la specie più importante per la vita del Pianeta, se è possibile
individuarne una, e noi le stiamo uccidendo.
Se il trend attuale non cambia le proiezioni prevedono l’estinzione del 40% degli insetti entro qualche decina di anni. Nei primi anni Duemila gli apicoltori statunitensi lanciarono l’allarme dello svuotamento delle loro arnie e gli agricoltori avvertirono il Congresso della necessità di ridurre l’estensione delle loro coltivazioni, a causa della moria delle impollinatrici: le api continuavano a diminuire, non solo negli Stati Uniti (dove si registrano perdite di api mellifere del 30% annuo, con picchi fino al 70% in alcuni stati, come in Iowa nel 2014), ma in tutto il mondo. Si iniziò allora a parlare di Colony Collapse Disorder, un crollo drammatico che oggi fa registrare ogni anno perdite oltre la soglia di allarme, fissata al 15% di una colonia, cifra sotto a cui i decessi non hanno grosse conseguenze. In Europa e in Australia va leggermente meglio, ma non possiamo stare tranquilli, senza contare che, se la morte delle api domestiche può essere misurata, è più difficile raccogliere i dati relativi alle api selvatiche, non meno importanti.
Le circa 25mila specie diverse di api sono minacciate da un insieme di fattori, la maggior parte dei quali provocata dall’uomo. Il lavoro delle api è molto dispendioso in termini di energia fisica per affrontare lunghi voli ed energia mentale che coinvolge una serie di abilità tra cui i sensi, la cognizione spaziale, l’apprendimento e la memoria; qualsiasi fattore interferisca con queste abilità impedisce alle api di raccogliere il cibo e tornare all’alveare e quindi, indirettamente, le uccide. Inquinamento da diesel e pesticidi neonicotinoidi sono i principali tra i fattori che interferiscono con le comunicazioni chimiche cerebrali delle api; gli scienziati hanno lanciato l’allarme anche riguardo all’agricoltura industriale e alle responsabilità di colossi come Monsanto, che, con le sostanze dannose che commercializza, interferisce con l’alimentazione delle api, indebolendole. Anche il cambiamento climatico colpisce su diversi piani: tanto il clima troppo umido con piogge violente quanto la siccità, infatti, possono uccidere gli insetti per fame o per sete, facendo seccare o distruggendo le piante che sono la loro unica fonte di sopravvivenza. Le ondate di calore, poi, possono ucciderli direttamente o far sciogliere alveari e arnie . A dare il colpo finale intervengono poi altri insetti come la Varroa destructor , parassita che interferisce con lo sviluppo cerebrale delle api.
Quanto alle sostanze chimiche dannose, in Italia siamo relativamente fortunati dato che a livello europeo i nostri prodotti alimentari sono tra quelli con meno residui di pesticidi. Ma questo non deve farci abbassare la guardia: sono diverse le ragioni per cui lo scenario attuale deve allarmarci e dovremmo impegnarci di più per salvare gli imenotteri, non solo perché ci piace il miele. Sono circa 250mila le specie vegetali impollinate dalle api, e di queste molte sono coltivate dall’uomo: gli imenotteri impollinano, infatti, un terzo di tutti i vegetali che mangiamo e tre quarti delle coltivazioni esistenti ricevono in qualche modo benefici da questi insetti. Il 35% delle colture dipende quindi da specie come le api, che contribuiscono, inoltre, a far aumentare del 30% circa le rese di ben 90 colture. Frutta come mele, pere, kiwi, castagne, ciliegie, albicocche, susine, meloni e cocomeri e ortaggi come pomodori, zucchine, soia, aglio, carote, cavoli e cipolle dipendono del tutto o in parte dalla loro impollinazione. Sono dati notevoli, importanti, specialmente per un mondo alle prese con la grande sfida di riuscire a nutrire la sua popolazione in continua crescita senza collassare.
Per la loro sparizione non soffrirebbe solo la nostra alimentazione, ma anche quella di molte specie animali, a partire da quelle che si nutrono di bacche e frutti e dai loro predatori, con un effetto a cascata su tutta la catena alimentare. Per l’uomo, poi, anche altri comparti subirebbero un duro colpo, tra cui la coltura del cotone. E naturalmente c’è anche il problema della perdita di posti di lavoro nel settore dell’apicoltura: con 250mila tonnellate annue di miele, di cui 23mila provenienti dall’Italia, l’Europa è il secondo produttore mondiale di miele dopo la Cina. Il nostro Paese è il maggiore produttore europeo di miele biologico, un settore in crescita in cui l’offerta non riesce a soddisfare la domanda, in aumento nelle nicchie di alta qualità, anche perché in Italia consumiamo l’85% del miele che produciamo. Dalle carestie alla mancanza di caffè e cacao, all’aumento a dismisura dei prezzi di frutta, verdura e fibre vegetali per l’abbigliamento, lo scenario di un mondo senza api si prospetta catastrofico.
Proprio la Cina, a causa dell’uso massiccio dei pesticidi, deve affrontare lo sterminio della quasi totalità delle api. Per far fronte alla situazione, grave soprattutto per gli effetti sulle coltivazioni di pere e mele nel sud del Paese, sono stati arruolate persone per svolgere l’impollinazione, ma la precisione e la delicatezza di un’ape non possono essere facilmente riprodotte. Non è poi secondario il problema dei costi, dato che il valore economico dell’impollinazione degli insetti è stimato ad esempio oltre 14 miliardi di dollari negli Usa e 440 milioni di sterline all’anno in Regno Unito. L’impollinazione a mano è quindi possibile solo per le coltivazioni più preziose e redditizie, anche perché non ci sono persone sufficienti a fare da impollinatori. Altrove, per esempio al Politecnico Tomsk in Russia e all’Istituto Nazionale per la Scienza e la Tecnologia Industriale Avanzata in Giappone, sono state sviluppate delle api robot, piccoli droni con crini di cavallo incollati sul “ventre” per impollinare delicatamente le colture. Ci sono però dei problemi: innanzitutto, spesso i droni possono essere impiegati solo nelle serre e poi c’è chi, come Saul Cunningham, sottolinea che nemmeno questo metodo è economicamente sostenibile su grandi estensioni.
Già da qualche anno, l’Unione Europea ha vietato l’impiego (applicabile dalla fine dell’anno scorso) di tre tipologie di pesticidi neonicotinoidi. La decisione, votata favorevolmente dalla maggior parte dei Paesi membri, è arrivata a seguito dei pareri espressi dall’Efsa sulla pericolosità dei neonicotinoidi nei confronti degli insetti e in particolare delle api. Le criticità rimangono, come fa notare Coldiretti: i divieti devono essere estesi anche alle colture in serra, dove per ora non vigono, e vanno applicati anche alle importazioni: ad esempio, buona parte del miele consumato in Italia arriva dalla Cina e, venduto in Europa a 1 euro al chilo, sta minando i mercati locali e mettendo a rischio anche la produzione italiana, che conta su un numero tra 45mila e 55mila produttori di miele, per un valore del settore di 60 milioni di euro, anche se difficilmente calcolabile dato l’alto numero di apicoltori amatoriali.
Se da un lato dobbiamo impegnarci con tutte le forze a preservare la popolazione di imenotteri e a incrementarla, dall’altro dobbiamo anche adattarci alla loro sempre più frequente assenza; infatti più l’agricoltura dipende da una singola coltura e più il contributo delle api diventa essenziale, motivo per cui sarebbe bene puntare sulla biodiversità delle colture, ricominciando a coltivare anche le specie oggi meno commercializzate. Intanto i singoli cittadini possono fare qualcosa: ad esempio piantare in giardino e sul balcone piante come rosmarino, borragine, basilico, lavanda, timo, ma anche malva, girasoli e calendule; evitare erbicidi e pesticidi; installare alveari e tagliare il prato meno frequentemente. E soprattutto si può far valere il proprio potere come consumatori, informandosi sulla provenienza dei prodotti acquistati e comprando miele locale e biologico per supportare l’apicoltura sostenibile. Ma una presa di coscienza ai piani alti, che emanino leggi più coraggiose e severe in materia di apicoltura e agricoltura sostenibile, è indispensabile. Il Regno Unito – che a livello regionale ha visto scomparire diverse specie di api – ha provato a risvegliare l’attenzione sul tema a Expo 2015, con un padiglione a forma di alveare, ma il problema è urgente: l’estinzione delle api è già una realtà ed è il momento che anche la politica, sempre distratta da problemi apparentemente più importanti e da finte emergenze per accaparrarsi voti, agisca davvero.
Se il trend attuale non cambia le proiezioni prevedono l’estinzione del 40% degli insetti entro qualche decina di anni. Nei primi anni Duemila gli apicoltori statunitensi lanciarono l’allarme dello svuotamento delle loro arnie e gli agricoltori avvertirono il Congresso della necessità di ridurre l’estensione delle loro coltivazioni, a causa della moria delle impollinatrici: le api continuavano a diminuire, non solo negli Stati Uniti (dove si registrano perdite di api mellifere del 30% annuo, con picchi fino al 70% in alcuni stati, come in Iowa nel 2014), ma in tutto il mondo. Si iniziò allora a parlare di Colony Collapse Disorder, un crollo drammatico che oggi fa registrare ogni anno perdite oltre la soglia di allarme, fissata al 15% di una colonia, cifra sotto a cui i decessi non hanno grosse conseguenze. In Europa e in Australia va leggermente meglio, ma non possiamo stare tranquilli, senza contare che, se la morte delle api domestiche può essere misurata, è più difficile raccogliere i dati relativi alle api selvatiche, non meno importanti.
Le circa 25mila specie diverse di api sono minacciate da un insieme di fattori, la maggior parte dei quali provocata dall’uomo. Il lavoro delle api è molto dispendioso in termini di energia fisica per affrontare lunghi voli ed energia mentale che coinvolge una serie di abilità tra cui i sensi, la cognizione spaziale, l’apprendimento e la memoria; qualsiasi fattore interferisca con queste abilità impedisce alle api di raccogliere il cibo e tornare all’alveare e quindi, indirettamente, le uccide. Inquinamento da diesel e pesticidi neonicotinoidi sono i principali tra i fattori che interferiscono con le comunicazioni chimiche cerebrali delle api; gli scienziati hanno lanciato l’allarme anche riguardo all’agricoltura industriale e alle responsabilità di colossi come Monsanto, che, con le sostanze dannose che commercializza, interferisce con l’alimentazione delle api, indebolendole. Anche il cambiamento climatico colpisce su diversi piani: tanto il clima troppo umido con piogge violente quanto la siccità, infatti, possono uccidere gli insetti per fame o per sete, facendo seccare o distruggendo le piante che sono la loro unica fonte di sopravvivenza. Le ondate di calore, poi, possono ucciderli direttamente o far sciogliere alveari e arnie . A dare il colpo finale intervengono poi altri insetti come la Varroa destructor , parassita che interferisce con lo sviluppo cerebrale delle api.
Quanto alle sostanze chimiche dannose, in Italia siamo relativamente fortunati dato che a livello europeo i nostri prodotti alimentari sono tra quelli con meno residui di pesticidi. Ma questo non deve farci abbassare la guardia: sono diverse le ragioni per cui lo scenario attuale deve allarmarci e dovremmo impegnarci di più per salvare gli imenotteri, non solo perché ci piace il miele. Sono circa 250mila le specie vegetali impollinate dalle api, e di queste molte sono coltivate dall’uomo: gli imenotteri impollinano, infatti, un terzo di tutti i vegetali che mangiamo e tre quarti delle coltivazioni esistenti ricevono in qualche modo benefici da questi insetti. Il 35% delle colture dipende quindi da specie come le api, che contribuiscono, inoltre, a far aumentare del 30% circa le rese di ben 90 colture. Frutta come mele, pere, kiwi, castagne, ciliegie, albicocche, susine, meloni e cocomeri e ortaggi come pomodori, zucchine, soia, aglio, carote, cavoli e cipolle dipendono del tutto o in parte dalla loro impollinazione. Sono dati notevoli, importanti, specialmente per un mondo alle prese con la grande sfida di riuscire a nutrire la sua popolazione in continua crescita senza collassare.
Per la loro sparizione non soffrirebbe solo la nostra alimentazione, ma anche quella di molte specie animali, a partire da quelle che si nutrono di bacche e frutti e dai loro predatori, con un effetto a cascata su tutta la catena alimentare. Per l’uomo, poi, anche altri comparti subirebbero un duro colpo, tra cui la coltura del cotone. E naturalmente c’è anche il problema della perdita di posti di lavoro nel settore dell’apicoltura: con 250mila tonnellate annue di miele, di cui 23mila provenienti dall’Italia, l’Europa è il secondo produttore mondiale di miele dopo la Cina. Il nostro Paese è il maggiore produttore europeo di miele biologico, un settore in crescita in cui l’offerta non riesce a soddisfare la domanda, in aumento nelle nicchie di alta qualità, anche perché in Italia consumiamo l’85% del miele che produciamo. Dalle carestie alla mancanza di caffè e cacao, all’aumento a dismisura dei prezzi di frutta, verdura e fibre vegetali per l’abbigliamento, lo scenario di un mondo senza api si prospetta catastrofico.
Proprio la Cina, a causa dell’uso massiccio dei pesticidi, deve affrontare lo sterminio della quasi totalità delle api. Per far fronte alla situazione, grave soprattutto per gli effetti sulle coltivazioni di pere e mele nel sud del Paese, sono stati arruolate persone per svolgere l’impollinazione, ma la precisione e la delicatezza di un’ape non possono essere facilmente riprodotte. Non è poi secondario il problema dei costi, dato che il valore economico dell’impollinazione degli insetti è stimato ad esempio oltre 14 miliardi di dollari negli Usa e 440 milioni di sterline all’anno in Regno Unito. L’impollinazione a mano è quindi possibile solo per le coltivazioni più preziose e redditizie, anche perché non ci sono persone sufficienti a fare da impollinatori. Altrove, per esempio al Politecnico Tomsk in Russia e all’Istituto Nazionale per la Scienza e la Tecnologia Industriale Avanzata in Giappone, sono state sviluppate delle api robot, piccoli droni con crini di cavallo incollati sul “ventre” per impollinare delicatamente le colture. Ci sono però dei problemi: innanzitutto, spesso i droni possono essere impiegati solo nelle serre e poi c’è chi, come Saul Cunningham, sottolinea che nemmeno questo metodo è economicamente sostenibile su grandi estensioni.
Già da qualche anno, l’Unione Europea ha vietato l’impiego (applicabile dalla fine dell’anno scorso) di tre tipologie di pesticidi neonicotinoidi. La decisione, votata favorevolmente dalla maggior parte dei Paesi membri, è arrivata a seguito dei pareri espressi dall’Efsa sulla pericolosità dei neonicotinoidi nei confronti degli insetti e in particolare delle api. Le criticità rimangono, come fa notare Coldiretti: i divieti devono essere estesi anche alle colture in serra, dove per ora non vigono, e vanno applicati anche alle importazioni: ad esempio, buona parte del miele consumato in Italia arriva dalla Cina e, venduto in Europa a 1 euro al chilo, sta minando i mercati locali e mettendo a rischio anche la produzione italiana, che conta su un numero tra 45mila e 55mila produttori di miele, per un valore del settore di 60 milioni di euro, anche se difficilmente calcolabile dato l’alto numero di apicoltori amatoriali.
Se da un lato dobbiamo impegnarci con tutte le forze a preservare la popolazione di imenotteri e a incrementarla, dall’altro dobbiamo anche adattarci alla loro sempre più frequente assenza; infatti più l’agricoltura dipende da una singola coltura e più il contributo delle api diventa essenziale, motivo per cui sarebbe bene puntare sulla biodiversità delle colture, ricominciando a coltivare anche le specie oggi meno commercializzate. Intanto i singoli cittadini possono fare qualcosa: ad esempio piantare in giardino e sul balcone piante come rosmarino, borragine, basilico, lavanda, timo, ma anche malva, girasoli e calendule; evitare erbicidi e pesticidi; installare alveari e tagliare il prato meno frequentemente. E soprattutto si può far valere il proprio potere come consumatori, informandosi sulla provenienza dei prodotti acquistati e comprando miele locale e biologico per supportare l’apicoltura sostenibile. Ma una presa di coscienza ai piani alti, che emanino leggi più coraggiose e severe in materia di apicoltura e agricoltura sostenibile, è indispensabile. Il Regno Unito – che a livello regionale ha visto scomparire diverse specie di api – ha provato a risvegliare l’attenzione sul tema a Expo 2015, con un padiglione a forma di alveare, ma il problema è urgente: l’estinzione delle api è già una realtà ed è il momento che anche la politica, sempre distratta da problemi apparentemente più importanti e da finte emergenze per accaparrarsi voti, agisca davvero.